L'arrampicata

L'arrampicata

L’arrampicata, lo sappiamo tutti, è uno sport che crea dipendenza nella maggior parte dei suoi praticanti.
Che sia nelle vertigini di una via multipitch, nella linea di un monotiro, o in una sequenza di movimenti di un boulder, arrampicare ci appassiona, tanto che poi diventa difficile saper tracciare la linea tra ciò che vorremmo e ciò che dovremmo fare. Soprattutto in materia di infortuni.

Nella mia esperienza questo è uno degli elementi cruciali che rende trattare il paziente sportivo, soprattutto se arrampicatore, così difficile: tutti vorremmo (sì, mi ci includo anche io) risolvere il nostro problema senza ridurre il volume e l’intensità dell’arrampicata, e magari continuando ad allenarci per i nostri progetti o per le competizioni. Tutti vorremmo guarire senza cambiare niente di ciò che, nel 99% dei casi, ha contribuito a creare il nostro problema. Messa così, la logica errata risulta evidente.

“Quindi se ho un problema posso continuare a scalare o devo fermarmi?” Risposta breve: in nessun caso posso continuare esattamente come prima; la scelta possibile è tra il fermarsi del tutto e il modificare la propria routine nella maniera più opportuna. E ora vedremo perché.

Le patologie che incontro in chi scala possono essere raggruppate, in maniera molto semplificativa, in due categorie: da una parte gli eventi traumatici (rottura di una puleggia, lesione ad un tendine, fratture, ecc…); dall’altra tutte quelle patologie che non hanno un evento scatenante preciso, ma che si sviluppano nel tempo come sindromi da sovraccarico o mal utilizzo (tendinosi come epitrocleite/epicondilite, tenosinovite, ecc…).
Negli eventi traumatici abbiamo del tessuto biologico che, per tutta una serie molto complessa di fattori, ha ceduto e si è rotto o lesionato. In questi casi l’interruzione temporanea dell’arrampicata è praticamente obbligata, e la riabilitazione segue quello che è il decorso biologico di riparazione dei tessuti: una fase iniziale infiammatoria in cui la struttura va tutelata per favorire l’inizio della riparazione, seguita da una fase di deposito e rimodellamento in cui la struttura va progressivamente caricata per favorire una riparazione funzionale e resistente. I tempi di questo processo variano molto a seconda della patologia e del paziente.
Nelle problematiche non traumatiche il discorso è più delicato, in quanto una diagnosi risulta più complessa, come complesso è identificare tutti i fattori che sono andati a generare il problema e su cui poi si deve andare ad intervenire. Sono problematiche che la maggior parte delle persone si porta avanti per lungo tempo (mesi, e a volte anni), anche in virtù del fatto che spesso non sono tanto dolorose da risultare debilitanti, e tendono ad essere trattate a suon di “scalaci su, che prima o poi passa” fino a che il peggioramento non è tale da costringere ad interrompere l’attività.
In queste lesioni di tipo più cronico spesso sottrarre del tutto lo stimolo al tessuto (ovvero smettere del tutto di scalare) non ne favorisce la riparazione, ma anzi può rallentarne il decorso: l’intervento qui si concentrerà più sul gestire quantità e qualità di questo stimolo, per far sì che da elemento di stress diventi un fattore positivo di guarigione.
Ovviamente la decisione su quale sia il percorso da intraprendere, e secondo quali modalità, dovrebbe essere affidata ad uno specialista (fisioterapista, ortopedico, ecc…) con una buona conoscenza delle patologie dell’arrampicata, che dopo un’accurata valutazione sappia indicarvi gli step precisi da intraprendere.

La stragrande maggioranza delle problematiche che si possono incontrare in questo ambito sono di facile risoluzione, e sono trattabili in maniera conservativa, senza il bisogno di ricorrere alla chirurgia; se prendiamo come esempio le problematiche riguardanti le dita, che sono la grande maggioranza, solo una piccola percentuale delle lesioni traumatiche (lesione di IV grado di 2 o più pulegge, oppure fratture) richiede un intervento chirurgico, che comunque da risultati ottimi e permette un ritorno alla scalata nel giro di qualche mese. Quello che fa la differenza tra un infortunio affrontato in maniera efficace e risolto in tempi brevi, ed uno che viene trascinato per mesi se non anni, è il grado di consapevolezza o sconsideratezza dell’infortunato.
Due esempi semplici.
Trascurare un infortunio come una lesione ad una puleggia o diciamo in generale al comparto flessorio delle dita, nastrandosi e semplicemente scalandoci sopra, fa sì che spesso il tessuto si rigeneri molto più tardi e in maniera disorganizzata, predisponendo poi quel dito al rischio di sviluppare patologie cronico-infiammatorie come la tenosinovite (che è un’infiammazione della guaina che riveste i tendini flessori delle dita). Se trattata nella maniera appropriata, una lesione alla puleggia fino al III grado si risolve nel giro di poche settimane, permettendo un ritorno progressivo alla scalata nel giro di qualche mese.
Trascurare una problematica di tipo cronico, come ad esempio un’epitrocleite (dolore nella zona interna del gomito, a livello dell’inserzione dei muscoli della loggia anteriore dell’avambraccio), fa sì che si instauri un circolo vizioso di microlesioni a livello del tendine, che porta la matrice stessa a degenerare, depositando collagene in maniera disorganizzata e compromettendo progressivamente sezioni sempre più estese del tendine e la sua capacità tensile. Se riconosciuta in tempo e trattata in maniera adeguata, l’epitrocleite può essere risolta nel giro di qualche settimana, evitando anche il rischio di recidive.
Possono esserci casi eccezionali in cui una figura specializzata può consentire qualche giorno di prosecuzione dell’attività, magari in contesti agonistici, attraverso strategie specifiche. Ma diciamo che questo potrebbe essere applicabile in caso di problematiche da sovraccarico, dove spesso l’integrità parziale dei tessuti è conservata. Nel caso di una lesione traumatica, come ad esempio una rottura completa di una puleggia, è più difficile riuscire a consentire la prosecuzione immediata dell’attività, anche perché spesso in questi casi la struttura in questione (dito, spalla, ecc…) non è più funzionale e non è in grado di sopportare il carico. Anche qui però potrebbero esserci delle eccezioni, valutabili individualmente.

Risulterebbe poco sensato dividere le patologie in base al maggior o minor rischio di cronicizzare: le patologie da sovraccarico e mal utilizzo, nascono di base come patologie croniche nel senso istologico del termine; mentre le lesioni traumatiche spesso possono portare, se non trattate adeguatamente, a sviluppare problematiche croniche. Ovviamente poi ogni palestra è piena di persone che scalando si sono procurate questo o quell’infortunio, ma hanno continuato ad ignorare il sintomo scalandoci sopra finchè è passato (anche se magari ora quel dito ad esempio non si estende più del tutto…), ma qui stiamo cercando di fare un discorso riabilitativo ponderato, e la scienza non gioca a dadi.

Una volta che la problematica è stata correttamente diagnosticata, esistono molte strategie che il singolo può utilizzare per lavorare, anche in maniera autonoma, alla propria guarigione.
Per questa digressione specifica su quando fermarsi e quando continuare a scalare, un piccolo vademecum riassuntivo potrebbe essere questo: se il male è nato da un trauma specifico e chiaramente identificabile è meglio lasciare in pace la struttura interessata per qualche settimana, così da lasciar spazio alla fase infiammatoria, e rivolgersi ad uno specialista per iniziare un percorso riabilitativo; se il male non ha avuto un origine traumatica specifica, ed è un dolore meno acuto ma sempre presente, allora non è sempre necessario interrompere l’attività, ma quantomeno ridurla di volume e intensità, cercando di mantenersi in  una zona in cui il livello di dolore sia basso (in una scala da 1 a 10 un leggero fastidio, che corrisponda ad un 3) e soprattutto non aumenti dopo l’attività o nei giorni seguenti. E ovviamente poi rivolgersi ad uno specialista.
E non lo dico per tirare l’acqua al mio mulino: sono semplicemente molto scettico di fronte alla riabilitazione fai-da-te, per sentito dire, che spesso si basa su aneddoti tramandati dai climbers più “esperti” ma senza fondamento, e che è fonte di danni in ogni comunità di arrampicatori. Se non volete stare lontani dall’arrampicata troppo a lungo, rivolgersi alla persona giusta il prima possibile è spesso la soluzione più rapida.